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Comunità Immune – Crack! Fumetti Dirompenti
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Comunità Immune

[ITA] (scroll down for English)

Le lezioni del virus

Paul B. Preciado

SE NEL 1984 MICHEL FOUCAULT fosse sopravvissuto all’aids e fosse rimasto in vita fino all’invenzione della triterapia, forse oggi avrebbe 93 anni: avrebbe accettato di rinchiudersi nel suo appartamento di rue de Vaugirard? Il primo filosofo della storia a morire di complicazioni generate dal virus dell’immunodeficienza acquisita ci ha lasciato alcune delle nozioni più efficaci per riflettere sulla gestione politica dell’epidemia. Nozioni che, in mezzo al panico e alla disinformazione, si rivelano utili come una buona mascherina cognitiva.

La cosa più importante che abbiamo imparato da Foucault è che il corpo vivente (e dunque mortale) è l’oggetto al centro di ogni politica. Non esiste politica che non sia una politica dei corpi. Ma per Foucault, il corpo non è un organismo biologico già dato sul quale il potere agisce in un secondo momento. Il compito dell’azione politica consiste proprio nel fabbricare un corpo, nel metterlo al lavoro, nel definirne le modalità di produzione e di riproduzione, nel prefigurare le modalità di discorso con cui questo corpo s’immagina fino a quando non è in grado di dire “io”.

Tutta l’opera di Foucault può essere interpretata come un’analisi storica delle differenti tecniche attraverso le quali il potere gestisce la vita e la morte della popolazione. Tra il 1975 e il 1976, anni in cui pubblica Sorvegliare e punire e il primo volume della Storia della sessualità, Foucault usa la nozione di “biopolitica” per parlare del rapporto che il potere stabilisce con il corpo sociale nella modernità. Descrive la transizione da quella che chiama “società sovrana” alla “società disciplinare” come il passaggio da una società che definisce la sovranità in termini di ritualizzazione della morte a una società che gestisce e massimizza la vita delle popolazioni in funzione dell’interesse nazionale. Per Foucault, le tecniche di governo biopolitico si sono diffuse come una rete di potere che ha oltrepassato la sfera legale o punitiva per diventare una forza orizzontale e tentacolare, attraversando la totalità del territorio e penetrando infine nel corpo individuale.

Durante e dopo la crisi dell’aids, diversi autori hanno ampliato e radicalizzato le ipotesi di Foucault esplorando la relazione tra biopolitica e immunità. Il filosofo italiano Roberto Esposito ha analizzato le relazioni tra la nozione politica di “comunità” e la nozione biomedica ed epidemiologica di “immunità”. La comunità e l’immunità hanno una radice comune, munus, in latino l’imposta (il dovere, la legge, l’obbligo, ma anche il dono) che qualcuno ha dovuto pagare per vivere o far parte della comunità. La comunità è cum (con) munus: un gruppo umano vincolato da una legge e un obbligo comuni, ma anche da un “dono”, ovvero da qualcosa che non ha un prezzo. Il nome immunitas è un termine privativo che deriva dalla negazione di munus. Nel diritto romano, l’immunità era una dispensa o un privilegio che esentava qualcuno dall’obbligo dei compiti che sono comuni a tutti. Chi era stato esonerato era “immune”.

Roberto Esposito insiste sul fatto che ogni biopolitica è immunologica: implica una definizione della comunità e una gerarchia tra chi viene esonerato da tasse e donazioni e chi la comunità percepisce come potenzialmente pericoloso, che sarà escluso in un atto di protezione immunologica. È il paradosso della biopolitica: ogni atto di protezione comporta una definizione immunitaria della comunità, con cui la collettività si concede il potere di decidere di sacrificare una parte della popolazione, a beneficio di un’idea della propria sovranità. Lo stato d’emergenza è la normalizzazione di questo insostenibile paradosso.

A partire dall’ottocento, con la scoperta del primo vaccino contro la varicella e gli esperimenti di Pasteur e Koch, la nozione d’immunità ha lasciato la sfera giuridica e ha preso un significato medico. L’individuo moderno inteso come un corpo libero e indipendente non è solo un’utopia dell’economia liberale, ma anche un modello d’immunità biopolitica. Le democrazie europee liberali e patriarcal-coloniali dell’ottocento hanno costruito l’ideale dell’individuo moderno non solo come un libero agente economico (maschio, bianco, eterosessuale), ma anche come un corpo immune, radicalmente separato, che non deve nulla alla comunità. Per Esposito, il modo in cui la Germania nazista caratterizzava parte della propria popolazione (gli ebrei, ma anche i rom, gli omosessuali, i disabili) come corpi che minacciavano la sovranità della comunità ariana è un esempio paradigmatico dei pericoli della gestione biopolitica immunitaria.

Questa concezione immunologica della società non si è conclusa con il nazismo: al contrario, è sopravvissuta negli Stati Uniti e in Europa, legittimando le politiche di gestione delle sue minoranze razzializzate e delle popolazioni migranti. È questa politica immunitaria che ha plasmato la comunità europea di oggi, il mito di Schengen e i dispositivi violenti dispiegati dall’agenzia europea della guardia di frontiera e costiera.

Nel 1994, in Flexible bodies, l’antropologa Emily Martin dell’università di Princeton, negli Stati Uniti, ha analizzato la relazione tra immunità e politica nella cultura statunitense durante la crisi della poliomielite e dell’aids e ne ha tratto delle conclusioni pertinenti per l’analisi della crisi attuale. L’immunità del corpo, afferma Martin, non è un fatto biologico indipendente dalle variabili culturali e politiche. Al contrario, ciò che intendiamo per immunità è costruito collettivamente attraverso criteri sociali e politici che producono alternativamente sovranità o esclusione, protezione o stigmatizzazione, vita o morte.

Se ripensiamo alla storia di alcune delle pandemie degli ultimi cinque secoli attraverso il prisma offerto da Michel Foucault, Roberto Esposito ed Emily Martin, è possibile elaborare un’ipotesi che potrebbe assumere la forma di un’equazione: ditemi come la vostra comunità sta costruendo la sua sovranità politica e io vi dirò che forme assumeranno le sue epidemie e come le affronterete. Le epidemie materializzano all’interno del corpo individuale le ossessioni che dominano la gestione politica della vita e della morte delle popolazioni in un determinato periodo. Per dirla con Foucault, un’epidemia radicalizza e sposta le tecniche biopolitiche applicate al territorio nazionale immettendole nell’ambito dell’anatomia politica, all’interno e al di sopra del corpo individuale. Al tempo stesso, un’epidemia consente di estendere all’insieme della popolazione le misure politiche d’immunizzazione che fino a quel momento erano state violentemente applicate a coloro che erano considerati stranieri sia all’interno sia ai confini del territorio nazionale.

La gestione politica delle epidemie mette in scena un’idea di comunità, rivela le fantasie immunitarie di una società e mette in luce i sogni onnipotenti (e i fallimenti) della sovranità politica. L’ipotesi di Foucault, Esposito e Martin non ha nulla a che fare con le teorie del complotto. Non si tratta dell’idea ridicola secondo cui il virus sarebbe stato inventato in laboratorio o farebbe parte di un piano machiavellico per diffondere politiche ancora più autoritarie. Al contrario, il virus non fa che riprodurre, materializzare, estendere e intensificare per l’intera popolazione le forme dominanti di gestione biopolitica e necropolitica già esistenti. Ogni società può dunque essere definita dall’epidemia che la minaccia e dalla sua organizzazione quando si manifesta.

Prendete, per esempio, la sifilide. L’epidemia colpì la città di Napoli per la prima volta nel 1494. L’impresa coloniale europea era appena cominciata. La sifilide segnò l’inizio della distruzione coloniale e delle future politiche razziali. I britannici la chiamavano “la malattia francese”, i francesi dicevano che era “la malattia napoletana” e i napoletani che veniva dall’America, che era stata portata dai colonizzatori infettati dagli “indiani”. Il virus, diceva Jacques Derrida, è sempre lo straniero, l’altro, quello che arriva da altrove. Infezione sessualmente trasmissibile, la sifilide ha materializzato nei corpi dei secoli che vanno dal cinquecento all’ottocento le forme di repressione ed esclusione sociale che hanno dominato la modernità patriarcal-coloniale: l’ossessione per la purezza razziale, il divieto dei cosiddetti matrimoni misti tra persone di classi sociali e “razze” diverse e le molteplici restrizioni che pesavano sulle relazioni sessuali ed extraconiugali.

Al centro di questa utopia della comunità e il modello dell’immunità sociale dalla sifilide c’è il corpo bianco borghese sessualmente confinato all’interno della vita coniugale come nucleo riproduttivo del corpo nazionale. Così, la prostituta diventò il corpo vivente che condensava tutti gli abietti significanti politici: donna attiva e spesso razzializzata, corpo al di fuori delle leggi nazionali e del matrimonio, che ha fatto della propria sessualità il suo mezzo di produzione, la lavoratrice del sesso fu mostrata, controllata e stigmatizzata come il vettore principale della diffusione del virus. Ma non fu la repressione della prostituzione o il confinamento delle prostitute in case chiuse statali (come immaginato da Restif de la Bretonne) a fermare la sifilide. Al contrario. Il confinamento delle prostitute le rese solo più vulnerabili alla malattia. A sradicare quasi del tutto la sifilide fu la scoperta degli antibiotici e soprattutto, nel 1928, della penicillina, ma anche un decennio di profonde trasformazioni delle politiche sessuali in Europa, con le rivolte dei movimenti di colonizzazione, l’accesso al voto delle donne bianche, le prime depenalizzazioni dell’omosessualità e una relativa liberalizzazione dell’etica del matrimonio eterosessuale.

Mezzo secolo dopo, l’aids sarà per la società neoliberale eteronormativa del novecento ciò che la sifilide era stata per la società industriale e coloniale del quattrocento. I primi casi comparvero nel 1981, proprio quando l’omosessualità aveva smesso di essere considerata una malattia psichiatrica, dopo essere stata per decenni oggetto di persecuzione e discriminazione sociale. La prima fase dell’epidemia interessò quelli che all’epoca venivano chiamati 4H: homosexuals, haitians, hemophiliacs eheroin users (omosessuali, haitiani, emofiliaci ed eroinomani). In seguito all’elenco fu aggiunto hookers (prostitute). L’aids rimodellò la griglia di controllo dei corpi e aggiornò le tecniche di sorveglianza della sessualità forgiate dalla sifilide e che negli anni sessanta e settanta i movimenti a favore della decolonizzazione, delle donne e dell’omosessualità avevano contribuito a smantellare. Come nel caso delle prostitute durante la crisi della sifilide, la repressione dell’omosessualità servì solo a far aumentare il numero dei decessi.

A trasformare l’aids in malattia cronica è stata la depatologizzazione dell’omosessualità, l’affrancamento farmacologico del sud del pianeta, l’emancipazione sessuale delle donne, il loro diritto a dire di no a pratiche sessuali senza preservativo e l’accesso delle popolazioni interessate alle triterapie. Il modello di comunità/immunità dell’aids è legato al fantasma della sovranità sessuale maschile intesa come un diritto non negoziabile alla penetrazione, mentre ogni corpo penetrato (in forma di omosessualità, femminilità, analità) è percepito come privo di sovranità. Ora torniamo alla nostra situazione attuale. Molto prima della comparsa del covid-19, avevamo già avviato un processo di mutazione planetaria. Già prima del virus, stavamo attraversando un cambiamento sociale e politico profondo quanto quello che aveva colpito le società con la sifilide. Nel quattrocento, con l’invenzione della stampa e l’espansione del capitalismo coloniale, siamo passati da una società orale a una società scritta, da una forma di produzione feudale a una forma di produzione industriale-schiavista e da una società teocratica a una società governata da accordi scientifici in cui le nozioni di sesso, razza e sessualità sarebbero diventate dei dispositivi di gestione della vita e della morte delle popolazioni.

Oggi stiamo passando da una società scritta a una società ciberorale, da una società organica a una società digitale, da un’economia industriale a un’economia immateriale, da una forma di controllo disciplinare e architettonica a forme di controllo prostetico e mediatico-cibernetico. Ho definito “farmacopornografico” il tipo di gestione e produzione del corpo ma anche della soggettività sessuale in questa nuova configurazione politica. Il corpo e la soggettività contemporanea non sono più regolati solo dal loro passaggio attraverso istituzioni disciplinari (scuola, fabbrica, caserma, ospedale) ma soprattutto da una serie di tecnologie biomolecolari che entrano nel corpo con microprotesi e tecnologie di sorveglianza digitale.

Nel campo della sessualità, la modifica farmacologica di coscienza e comportamento, il consumo di massa di antidepressivi e ansiolitici, la globalizzazione del consumo della pillola contraccettiva, così come la produzione di triterapie, di terapie preventive per l’aids o il consumo di Viagra sono alcuni degli indicatori della gestione biotecnologica. L’estensione planetaria di internet, la diffusione dell’uso di tecnologie informatiche mobili, l’uso dell’intelligenza artificiale, lo scambio a banda larga d’informazioni e lo sviluppo di dispositivi globali di sorveglianza informatica satellitare sono altri indicatori di questa nuova gestione digitale semio-tecnica. Se li ho definiti pornografici, è perché non funzionano più attraverso la repressione e il divieto della sessualità (masturbatoria o altra), ma si servono dell’incitamento al consumo e della produzione costante di un piacere regolamentato e quantificabile. Più consumiamo e più siamo sani, meglio siamo controllati.

La mutazione in corso potrebbe anche essere il passaggio da un regime patriarcal-coloniale ed estrattivista, da una società antropocentrica e in cui una piccola parte della comunità umana planetaria si permette di esercitare una politica di predazione universale, a una società capace di ridistribuire l’energia e la sovranità. Durante e dopo questa crisi, quali sono le vite che vogliamo salvare sarà al centro del dibattito. È nel contesto di questa mutazione, di questa trasformazione delle modalità di comprensione della comunità (una comunità che oggi è l’intero pianeta, non c’è più separazione possibile) e dell’immunità, che il virus opera e che viene organizzata la strategia politica per affrontarlo.

Immunità e politica della frontiera

Ciò che ha caratterizzato le politiche governative degli ultimi vent’anni, rispetto alle finte idee di libertà di movimento che hanno dominato il neoliberismo dell’era Thatcher, è stata la ridefinizione degli stati nazione in termini neocoloniali e identitari e il ritorno all’idea della frontiera materiale come condizione per il ripristino dell’identità nazionale e della sovranità politica. Israele, gli Stati Uniti, la Russia, la Turchia e l’Unione europea hanno guidato la progettazione di nuove frontiere che, per la prima volta da decenni, non sono state solo monitorate o sorvegliate, ma anche ridefinite dalle decisioni di erigere muri, costruire dighe e difenderle attraverso misure non biopolitiche, ma necropolitiche, con tecniche di esclusione e di morte.

La società europea ha deciso di costruirsi collettivamente come una comunità totalmente immune, chiusa a est e a sud, mentre proprio l’est e il sud, in termini di risorse energetiche e di produzione di beni di consumo, sono il suo magazzino. La costruzione di questa immunità politica è passata attraverso un delirio neosovranista. L’Europa ha chiuso la frontiera in Grecia e ha costruito i più grandi centri di detenzione a cielo aperto della storia su territori che confinano con Turchia e Mediterraneo: a Ceuta, a Melilla, a Calais, sull’isola di Lampedusa. La distruzione dell’Europa è cominciata paradossalmente con la costruzione di questa comunità europea immune, aperta all’interno e totalmente chiusa a stranieri e migranti.

Quello che viene testato oggi su scala planetaria attraverso la gestione del covid-19 è un nuovo modo di concepire la sovranità in un contesto in cui l’identità sessuale e quella etnica (fino a oggi gli assi della segmentazione politica del mondo patriarcal-coloniale) sono disgiunte. Il covid-19 ha spostato su un piano individuale le politiche di frontiera in atto sul territorio nazionale o all’interno del superterritorio europeo. Il corpo, il tuo singolo corpo, come spazio di vita e come rete di potere, come centro di produzione e di consumo di energia, è diventato il nuovo territorio all’interno del quale si esprimono le violente politiche di frontiera che progettiamo e testiamo da anni sugli “altri”, assumendo la forma di misure di barriera e di guerra al virus. La nuova frontiera necropolitica si è spostata dalle coste della Grecia verso la porta di casa tua. Oggi Lesbo comincia sul tuo pianerottolo. E la frontiera non smette di chiudersi su di te, ti spinge sempre più verso il tuo corpo. Calais oggi ti esplode in faccia. La nuova frontiera è la mascherina. L’aria che respiri deve essere solo tua. La nuova frontiera è la tua epidermide. La nuova Lampedusa è la tua pelle.

Le politiche di frontiera e le severe misure di confinamento e immobilizzazione che in questi ultimi anni abbiamo applicato ai migranti e ai rifugiati, considerandoli virali per la comunità, oggi sono riprodotte all’interno del territorio nazionale, applicate a tutta la popolazione, riscritte sui corpi individuali. Per anni abbiamo messo migranti e rifugiati nei centri di detenzione, un limbo politico senza diritti e senza cittadinanza, sale d’attesa permanenti. Ora siamo noi quelli che vivono in centri di detenzione dentro le nostre stesse case.

Le epidemie, con il loro appellarsi a uno stato d’emergenza e imponendo misure estreme senza eccezioni, sono grandi laboratori d’innovazione sociale, l’occasione per una riconfigurazione su larga scala delle tecniche dei corpi e delle tecnologie del potere. Foucault ha analizzato il passaggio dalla gestione della lebbra alla gestione della peste come il processo attraverso il quale le tecniche disciplinari di spazializzazione del potere sono state impiegate nella modernità. Se la lebbra veniva trattata con misure strettamente necropolitiche che escludevano il lebbroso e lo condannavano se non alla morte quantomeno alla vita al di fuori della comunità, la reazione all’epidemia di peste inventò la gestione disciplinare e le sue forme di “inclusione esclusiva”: la rigorosa segmentazione della città e il confinamento di ogni corpo in ogni casa.

Le diverse strategie che i paesi hanno adottato per gestire la diffusione del covid-19 mostrano due tipi completamente differenti di tecnologie biopolitiche. Il primo, che opera principalmente in Italia, in Spagna e in Francia, applica rigide misure disciplinari che per molti aspetti non sono così diverse da quelle usate contro la peste. Si tratta del chiudere in casa tutta la popolazione. È utile rileggere il capitolo di Sorvegliare e punire sulla gestione della peste in Europa per rendersi conto che da allora le politiche francesi di gestione delle epidemie non sono molto cambiate. A funzionare qui è la logica della frontiera architettonica e il trattamento dei casi d’infezione nelle classiche enclavi ospedaliere. Una tecnica che non ha ancora dimostrato di essere del tutto efficace.

La seconda strategia, messa in atto tra gli altri da Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong e Giappone, consiste nel passare da tecniche moderne di controllo disciplinare e architettonico a tecniche “farmacopornografiche”: qui l’accento è posto sulla rilevazione della carica virale degli individui attraverso la moltiplicazione dei test e il monitoraggio digitale costante e severo dei pazienti attraverso i loro dispositivi mobili. Telefoni e carte di credito diventano strumenti di sorveglianza che consentono di seguire i movimenti individuali del corpo potenzialmente portatore del virus. Non abbiamo bisogno di braccialetti biometrici: lo smartphone è diventato il miglior braccialetto, nessuno se ne separa nemmeno per dormire. Un’applicazione gps informa la polizia dei movimenti di ogni corpo sospetto. La temperatura e il movimento del singolo corpo sono sorvegliati da tecnologie mobili e osservati in tempo reale dall’occhio digitale di uno stato ciberautoritario. Qui la società è una comunità di ciberutenti e la sovranità è prima di tutto dominio digitale e gestione dei dati.

Nelle ultime settimane, la Apple e Google hanno firmato un accordo per il lancio di una nuova applicazione per gli smartphone che permette di tracciare il covid-19. Se l’utente del telefono risulta positivo, l’app lo notificherà alle pubbliche autorità. A quel punto sarà allertata qualunque persona il cui smartphone negli ultimi 14 giorni sia stato nelle vicinanze del telefono della persona infetta. Ma queste politiche d’immunizzazione non sono una novità e in passato sono state messe in campo non solo per la ricerca e la cattura di presunti terroristi: dall’inizio degli anni 2010, per esempio, Taiwan ha legalizzato l’accesso a tutti i contatti dei telefoni cellulari nelle applicazioni d’incontri sessuali al fine di “prevenire” la diffusione dell’aids e della prostituzione online. Il covid-19 ha legittimato ed esteso queste pratiche statali di biosorveglianza e di controllo digitale standardizzandole e rendendole “necessarie” per mantenere una certa sensazione d’immunità. Nel frattempo, gli stessi stati che mettono in atto misure estreme di sorveglianza digitale non prevedono ancora di vietare il traffico né la produzione industriale di uccelli e di mammiferi né di ridurre le emissioni di CO2. A essere aumentata non è l’immunità del corpo sociale, ma la tolleranza dei cittadini al controllo cibernetico da parte dello stato e delle imprese.

La gestione politica del covid-19 come forma di amministrazione della vita e della morte traccia i contorni di una nuova soggettività. Ciò che sarà stato inventato dopo la crisi, sarà una nuova utopia della comunità immunitaria e una nuova forma di controllo di massa dei corpi umani. Il soggetto delle società tecnopatriarcali neoliberali che il covid-19 sta costruendo non ha pelle, è intoccabile, non ha mani. Non scambia beni materiali né paga con denaro. È un consumatore digitale con una carta di credito. Non ha labbra né lingua. Non parla dal vivo, lascia un messaggio vocale. Non si riunisce e non si collettivizza. È radicalmente individuale. Non ha volto, ha una maschera. Per esistere, il suo corpo organico è nascosto dietro a una serie indefinita di mediazioni semio-­tecniche, una serie di protesi cibernetiche che sono anch’esse maschere: l’indirizzo email, l’account Face­book, Instagram, Skype. Non è un agente fisico, ma un teleproduttore, è un codice, un pixel, un conto in banca, una porta con un nome, un indirizzo al quale Amazon può spedire gli ordini.

Il covid-19 ha anche reso visibile una cartografia di zone improduttive del corpo sociale all’interno della nuova gestione farmacopornografica, che risultano obsolete nel nuovo regime di produzione tecno-digitale. Sono zone che erano già state lasciate dall’altra parte della frontiera biopolitica e che oggi appaiono doppiamente vulnerabili: gli anziani, le persone che non saranno più in grado di trasformarsi in soggetti tecnocibernetici, in particolare quelle che sono state istituzionalizzate nelle industrie della morte note come case di riposo, i corpi considerati disabili, in particolare quelli che sono stati istituzionalizzati dentro le industrie della morte note come residenze per disabili e i corpi criminalizzati e rinchiusi nelle industrie della morte note come prigioni, tutti universi paralleli completamente al di fuori della bolla di internet. Gli istituti di detenzione, di cui fanno parte gli ospedali, appaiono ormai non come enclavi di mantenimento dell’ordine sociale e della disciplina, ma come maglie fragili di una catena biopolitica in mutazione.

Uno dei cambiamenti biopolitici fondamentali nelle tecniche farmacopornografiche che caratterizzano la crisi del covid-19 è che il domicilio personale, l’abitazione, la casa privata, e non le istituzioni tradizionali di confinamento e di normalizzazione della società (ospedale, fabbrica, prigione, scuola), appaiono come il nuovo centro di produzione, consumo e controllo politico. Non si tratta solo di fare della casa il luogo dove il corpo viene confinato, come era durante la gestione della peste. Il domicilio personale è diventato il centro dell’economia del teleconsumo e della teleproduzione. Lo spazio domestico esiste ormai come un punto in uno spazio di cibersorveglianza, un luogo identificabile su una mappa di Google, un’immagine riconoscibile da un drone.

Se qualche anno fa mi sono interessato alla Playboy mansion, il maniero gotico di Chicago e poi la casa di Los Angeles dove viveva Hugh Hefner, il fondatore della rivista Playboy, è perché già in piena guerra fredda era un laboratorio dove s’inventavano nuovi dispositivi di controllo farmacopornografico del corpo e della sessualità. Dalla fine del novecento questi dispositivi si sono diffusi in occidente e oggi, con la crisi del covid-19, sono stati estesi all’insieme della popolazione mondiale. Mentre facevo le mie ricerche su Playboy, sono rimasto colpito dal fatto che Hugh Hefner, uno degli uomini più ricchi del mondo, avesse passato quasi quarant’anni senza uscire di casa, indossando solo pigiami, vestaglie e pantofole, bevendo bibite gassate e mangiando barrette di cioccolato. Hefner diresse e produsse la rivista più importante degli Stati Uniti senza mai lasciare la sua casa e nemmeno il suo letto. Collegato a una videocamera, a una linea telefonica diretta, alla radio e a un impianto stereo, il letto di Hefner era una vera e propria piattaforma di produzione multimediale.

Il suo biografo, Steven Watts, ha definito Hefner un “recluso volontario dentro il suo paradiso”. Fan dei dispositivi di archiviazione audiovisiva d’ogni tipo, Hefner, ben prima di possedere un cellulare, Face­book o WhatsApp, inviava più di venti cassette audio e video al giorno con consigli e messaggi, che andavano dalle interviste in diretta alle istruzioni per la pubblicazione della rivista. Ricoperta di pannelli di legno e tende spesse, ma attraversata da migliaia di cavi e piena di quelle che all’epoca erano considerate tecnologie di telecomunicazione all’avanguardia (e che oggi ci sembrerebbero arcaiche come il tam tam), la mansion era al tempo stesso completamente impenetrabile e del tutto trasparente. Hefner aveva installato una telecamera a circuito chiuso nel maniero, dove viveva anche una decina di modelle della rivista, e dalla sua postazione di controllo poteva accedere a tutte le stanze in tempo reale. Il materiale filmato dalle telecamere di sorveglianza finiva anch’esso sulle pagine della rivista.

La rivoluzione biopolitica silenziosa condotta da Playboy, al di là della trasformazione della pornografia eterosessuale in cultura di massa, significò la rimessa in discussione della divisione che aveva fondato la società industriale dell’ottocento: la separazione delle sfere di produzione e di riproduzione, la differenza tra fabbrica e casa e con essa la distinzione patriarcale tra mascolinità e femminilità. Playboy creò una nuova enclave di vita: l’appartamento per scapoli interamente connesso alle nuove tecnologie di comunicazione così che il nuovo produttore semio-tecnico non dovesse uscire né per lavorare né per fare l’amore, attività che comunque erano diventate indistinguibili. Il suo letto rotondo era al tempo stesso la sua scrivania, il suo ufficio di direttore della rivista, un set fotografico, uno studio televisivo e un luogo d’incontri sessuali.

Playboy anticipò il discorso contemporaneo sul telelavoro e la produzione immateriale che la crisi del covid-19 ha trasformato in dovere nazionale. Hefner definiva questo nuovo produttore sociale il “lavoratore orizzontale”. Il vettore d’innovazione sociale messo in moto da Playboy promuove l’erosione (e poi la distruzione) della distanza tra lavoro e svago, tra produzione e sesso. A questo proposito, Playboy s’interrogava anche sulla differenza tra le sfere maschili e femminili, facendo del nuovo operatore multimediale “un uomo domestico”, cosa che all’epoca sembrava un ossimoro. Il biografo di Hefner ci ricorda che questo isolamento produttivo aveva bisogno di un sostegno chimico: Hefner era un consumatore di dexedrina, un’amfetamina che elimina la stanchezza e il sonno. Per cui, paradossalmente, l’uomo che non si alzava dal letto non dormiva molto.

Il letto come nuovo centro operativo multimediale era una cella farmacopornografica: poteva funzionare solo grazie alla pillola contraccettiva, ai farmaci per mantenere la produzione a un livello elevato e alla connessione a banda larga per sostenere il flusso costante di codici semiotici diventati l’unico vero cibo.

Vi ricorda qualcosa? Non somiglia stranamente alle vostre vite confinate? Pensiamo agli slogan del presidente francese Emmanuel Macron: siamo in guerra, non lasciate il vostro domicilio e telelavorate. Le misure biopolitiche di gestione del contagio imposte durante la crisi del covid-19 ci hanno trasformato tutti in lavoratori orizzontali. Lo spazio domestico di ognuno di noi oggi è mille volte più tecnologico del letto girevole di Hefner nel 1968. Il telelavoro e i dispositivi di telecontrollo sono a portata di mano.

In Sorvegliare e punire, Michel Foucault analizza le celle di confinamento unipersonale dei monaci come vettori che servirono a modellare il passaggio dalle tecniche sovrane e sanguinarie di controllo del corpo e della soggettività di prima del settecento ad architetture e dispositivi di confino disciplinari come nuove tecniche di gestione dell’intera popolazione. Le architetture disciplinari erano versioni secolarizzate delle celle monastiche all’interno delle quali l’individuo moderno fu costruito come un’anima intrappolata dentro a un corpo, un’anima letterata in grado di leggere le istruzioni dello stato. Quando lo scrittore Tom Wolfe andò a trovare Hefner, scrisse che viveva in una prigione morbida come il cuore di un carciofo. Si potrebbe dire che durante la guerra fredda la Playboy mansion e il letto girevole di Hefner funzionarono come spazi di transizione dentro ai quali inventare il nuovo soggetto profetico e iperconnesso. Questa mutazione si è diffusa e amplificata con la gestione della crisi del covid-19: i nostri mezzi di telecomunicazione portatili sono i nostri nuovi carcerieri e i nostri stessi interni domestici sono diventati la nostra prigione molle e iperconnessa del futuro.

Tutto questo potrebbe essere una brutta notizia o una grande opportunità. È proprio perché i nostri corpi sono le nuove enclavi del biopotere e i nostri appartamenti le nuove celle di biovigilanza che oggi più che mai bisogna inventare nuove strategie di emancipazione cognitiva e di resistenza, avviare nuove forme di antagonismo.
Contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, la nostra salute non dipenderà dal confine né dalla separazione, ma da una nuova concezione della comunità che includa tutti gli esseri viventi, da un nuovo equilibrio con gli altri esseri viventi del pianeta. Abbiamo bisogno di un parlamento di corpi planetari, un parlamento non definito in termini di politiche d’identità o di nazionalità, un parlamento di corpi (vulnerabili) che vivono sul pianeta Terra. Il covid-19 e le sue conseguenze ci esortano a superare una volta per tutte la violenza con cui abbiamo definito la nostra immunità sociale.

La guarigione e il recupero non possono essere un puro gesto immunologico di ritiro dal sociale, di chiusura della comunità. La guarigione e la cura non possono che essere un processo di trasformazione politica. Guarire in quanto società significherà inventare una nuova comunità al di là delle politiche d’identità e di frontiera con cui fino a oggi abbiamo prodotto la sovranità, ma anche al di là della riduzione della vita alla biosorveglianza cibernetica. Restare in vita, mantenerci in vita come pianeta, di fronte al virus ma anche a ciò che potrà succedere, significa mettere in atto nuove forme di cooperazione planetaria. Così come il virus muta, se vogliamo resistere alla sottomissione anche noi dobbiamo subire una mutazione.

Dobbiamo passare da una mutazione forzata a una mutazione decisa da noi. Dobbiamo operare una riappropriazione critica delle tecniche biopolitiche e dei loro dispositivi farmacopornografici. Prima di tutto, è necessario modificare la relazione del nostro corpo con le macchine di biovigilanza e biocontrollo. Dobbiamo imparare collettivamente a modificarle. Dobbiamo imparare anche a disalienarci. I governi chiedono il confino e il telelavoro. Sappiamo che quello che stanno chiedendo è la decollettivizzazione e il telecontrollo. Usiamo il tempo e la forza del confino per studiare le tradizioni di lotta e di resistenza delle minoranze che fino a oggi ci hanno aiutato a sopravvivere. Spegniamo i telefoni, scolleghiamo internet. Facciamo il grande blackout di fronte ai satelliti che ci osservano e riflettiamo insieme sulla rivoluzione in arrivo.

Paul B. Preciado è un filosofo. attivista transfemminista e studioso di genere e politiche sessuali. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Pornotopia.
Playboy: architettura e sessualità
(Fandango 2020). Questo articolo è uscito su Mediapart con il titolo les leçons du virus
.

Traduzione di Tiziana Lo Porto

https://www.internazionale.it/opinione/paul-preciado/2020/05/09/lezioni-virus


[ENG]

LEARNING FROM THE VIRUS

Paul B. Preciado

IF MICHEL FOUCAULT had survived AIDS in 1984 and had stayed alive until the invention of effective antiretroviral therapy, he would be ninety-three years old today. Would he have agreed to confine himself in his apartment on rue de Vaugirard in Paris? The first philosopher of history to die from complications resulting from the acquired immunodeficiency virus left us with some of the most effective tools for considering the political management of the epidemic—ideas that, in this atmosphere of rampant and contagious disinformation, are like cognitive protective equipment.

The most important thing we learned from Foucault is that the living (therefore mortal) body is the central object of all politics. There are no politics that are not body politics. But for Foucault, the body is not first a given biological organism on which power then acts. The very task of political action is to fabricate a body, to put it to work, to define its modes of production and reproduction, to foreshadow the modes of discourse by which that body is fictionalized to itself until it is able to say “I.”

Foucault’s entire oeuvre can be understood as a historical analysis of different techniques by which power manages the life and death of populations. Between 1975 and 1976, the years when he published Surveiller et punir (Discipline and Punish) and the first volume of Histoire de la sexualité (The History of Sexuality), Foucault used the notion of “biopolitics” to speak of the relationship that power establishes with the social body in modernity. He describes the transition from what he calls a sovereign society, in which sovereignty is defined in terms of commanding the ritualization of death, to a “disciplinary society,” which oversees and maximizes the life of populations as a function of national interest. For Foucault, the techniques of biopolitical government spread as a network of power that goes beyond the juridical spheres to become a horizontal, tentacular force, traversing the entire territory of lived experience and penetrating each individual body.

During and after the AIDS crisis, many writers expanded on and radicalized Foucault’s hypotheses by exploring the relationship of immunity and biopolitics. The Italian philosopher Roberto Esposito analyzed the links between the political notion of community and the biomedical and epidemiological notion of immunity. The two terms share a common root, the Latin munus, the duty (tax, tribute, gift) someone must pay to be part of the community. The community is cum (with) munus: a human group connected by common law and reciprocal obligation. The noun immunitas is a privative word that stems from the negation of munus. In Roman law, immunity was a privilege that released someone from the obligations shared by all. He who had been exempted was immunized. He who had been de-munized, conversely, had been stripped of all community privileges after having been deemed a threat to the community.

Esposito emphasizes that all biopolitics is immunological: Biopolitics implies a hierarchy with the immunized at the top and the de-munized, who will be excluded from any act of immunological protection, at the bottom. That is the paradox of biopolitics: All protective acts include an immunitary definition of community in which the collective grants itself the power to decide to sacrifice a part of the population in order to maintain its own sovereignty. The “state of exception” is the normalization of this intolerable paradox.

Starting in the nineteenth century, with the discovery of the first vaccine against smallpox and Louis Pasteur’s and Robert Koch’s microbiological experiments, the notion of immunity left the realm of law and acquired a medical meaning. The liberal and patriarchal-colonial European democracies of the nineteenth century constructed the ideal of the modern individual not only as a free economic agent (male, white, heterosexual) but also as an immunized body, radically separated, that owed nothing to the community. For Esposito, the way Nazi Germany characterized parts of its own population (Jews, Roma, homosexuals, the disabled) as bodies that threatened the sovereignty of the Aryan community is a paradigmatic example of the dangers of immunitary biopolitics. That immunological understanding of society did not end with Nazism—quite the opposite: It thrived in the United States and Europe, legitimizing the management politics used to control racialized minorities and migrant populations. It is this immunitary ethos that defines current border regimes and underpins the militarized strategies deployed by ICE at the US-Mexico frontier and by Frontex to defend the Schengen Area.

In her 1994 book Flexible Bodies, the anthropologist Emily Martin analyzed the relationship between immunity and politics in American culture during the polio and AIDS crises. The body’s immunity, Martin states, is not a biological fact independent of cultural and political variables. On the contrary, what we understand to be immunity is constructed through social and political criteria that produce sovereignty or exclusion, protection or stigmatization, life or death. Tell me how your community constructs its political sovereignty and I will tell you what forms your plagues will take.

To consider the history of pandemics through the prism offered by Foucault, Esposito, and Martin is to arrive at the following proposition: Tell me how your community constructs its political sovereignty and I will tell you what forms your plagues will take and how you will confront them. In the domain of the individual body, different sicknesses materialize the obsessions that dominate bio- and necro-politics in a given period. In Foucault’s terms, an epidemic radicalizes and shifts biopolitical techniques by incorporating them at the level of the individual body. At the same time, an epidemic extends to the whole of the population the political measures of immunization that had until then been violently applied onto those who were considered to be aliens both within and at the borders of national territory.

The management of epidemics stages an idea of community, reveals a society’s immunitary fantasies, and exposes sovereignty’s dreams of omnipotence—and its impotence. Foucault’s, Esposito’s, and Martin’s hypotheses may posit epidemics as sociopolitical constructions rather than strictly biological phenomena, but they have nothing to do with ridiculous conspiracy theories about lab-designed viruses paving the way for authoritarian power grabs. To the contrary, they allow us to appreciate how the virus actually reproduces, materializes, widens, and intensifies (from the individual body to the population as a whole) the dominant forms of biopolitical and necropolitical management that were already operating over sexual, racial, or migrant minorities before the state of exception.

Take syphilis, for example. The epidemic reached Naples for the first time in 1494. The European colonial enterprise had just begun; the disease, in a way, launched the colonial destruction and racial politics to come. The English called it the “French disease,” the French said it was the “Neapolitan disease,” and the Neapolitans said it came from America; it was thought to have been brought by the colonizers who had been infected by the “Indians.” It was rather the opposite. The exchange of pathogens was massively asymmetrical; European germs devastated the New World. The virus, neither living nor dead, neither organism nor machine, Derrida said, is always the foreigner, the other, the one from elsewhere. Between the sixteenth and nineteenth centuries, syphilis, a sexually transmitted infection, materialized in bodies the forms of repression and exclusion that dominated modernity: the obsession with racial purity, the injunction against so-called mixed marriages between people of different classes and races, and the multiple restrictions that weighed on sexual relations. At the nexus of this model of community and of immunity, the sovereign body fabricated by syphilis was the white, bourgeois body, sexually confined in conjugal life and consigned to the reproduction of the national population. Thus the prostitute became the living body that condensed all abject political signifiers during the syphilis epidemic: As a working and often racialized woman, a body outside the laws of home and marriage, who turned her sexuality into her means of production, the sex worker was made visible, controlled and stigmatized as the principal vector of infection. At the end of the eighteenth century, social thinkers such as Restif de la Bretonne imagined that the end of syphilis would come with the incarceration of prostitutes in national brothels where women could provide sexual services as their national duty—during every pandemic there are popular gurus offering magic solutions who come to comfort the hegemonic order.

But it was not the repression of prostitution or the confinement of sex workers to national brothels that brought syphilis under control. To the contrary, the confinement of prostitutes only made them more vulnerable to the disease. What allowed for the near eradication of syphilis was the discovery of penicillin in 1928, as well as a series of profound transformations that directly and indirectly impacted sexual and bodily emancipation during the same decade: the rise of decolonization movements, white women’s suffrage, the first decriminalization of homosexuality, the relative liberalization of the ethics of heterosexual marriage.

In the late twentieth century, AIDS would be to heteronormative neoliberal society what syphilis had been to colonial capitalism during early modernity. The first official reports appeared in 1981; activists had finally gathered momentum in removing homosexuality from the realm of psychiatric disease. In 1973, after decades as the pathologized pretext for discrimination and persecution, homosexuality was removed from the American Psychiatric Association’s list of mental disorders. The first phase of the epidemic disproportionately affected what were then called the Four H’s: homosexuals, Haitians, hemophiliacs, and heroin users. Later, hookers were added to the list. AIDS reconstituted and remodeled the colonial control grid of bodies and updated the surveillance techniques of sexuality that syphilis had initially woven together. As did the suppression of prostitution during the syphilis crisis, the repression of homosexuality only increased the number of deaths. The AIDS community/immunity model is linked to the fantasy of male sexual sovereignty understood to be a nonnegotiable right to penetration, whereas every penetrated body (in the forms of homosexuality, femininity, anality) is perceived as lacking sovereignty (de-munized). In fact, what gradually transformed AIDS into a chronic disease was the depathologization of homosexuality; the pharmacological empowerment of the Global South; women’s sexual emancipation, which allowed them to say no to sex without condoms; and access to antiretroviral therapies irrespective of social class or degree of racialization. Well before the appearance of Covid-19, a process of global mutation was already underway. We were undergoing social and political changes as profound as those that transpired in early modernity.

We are still in the throes of the transition from a written to a cyber-oral society, from an industrial to an immaterial economy, from a form of disciplinary and architectural control to forms of microprosthetic and media-cybernetic control. In other writings, I’ve used the term pharmacopornographic for this type of management and production of the body as well as to describe the political technologies that produce sexual subjectivity within this new configuration of power and knowledge. We are no longer regulated solely by their passage through disciplinary institutions (school, factory, barracks, hospital, etc.) but by a set of biomolecular technologies that enter into the body by way of microprostheses and technologies of digital surveillance subtler and more insidious than anything Gilles Deleuze envisioned in his famous prognostications about the society of control. In the domain of sexuality, the pharmacological modification of consciousness and behavior, the mass consumption of antidepressants and anxiolytics, and the globalization of the contraceptive pill, as well as antiretroviral therapies, preventative AIDS therapies, and Viagra, are some of the indicators of biotechnological management, which in turn synergizes with new modes of semio-technical management that have arisen with the surveillance state and the global expansion of the network into every facet of life. I use the term pornographic because these management techniques function no longer through the repression and prohibition of sexuality, but through the incitement of consumption and the constant production of a regulated and quantifiable pleasure. The more we consume and the better our health, the better we are controlled.

The mutation in progress could ultimately catalyze a shift from an anthropocentric society where a fraction of the global human community authorizes itself to exercise a politics of universal extractivist predation to a society that is capable of redistributing energy and sovereignty. At the center of the debate during and after this crisis will be which lives are the ones we want to save. It is in the context of this mutation, of this transformation of the modes of understanding community (one that encompasses the entire planet, since separation is no longer possible) and immunity, that the virus is operating and that the political strategy to confront it is taking shape.

IMMUNITY AND BORDER POLITICS

At least since the fall of the twin towers, governmental politics has been characterized by the redefinition of nation-states in terms of neocolonialism and identity and the return (after the Reagan-Thatcherite phase of neoliberalism, which stressed free movement and free trade) to the idea of the physical border as a condition for restoring national integrity and political sovereignty. Israel, the United States, Russia, Turkey, and the European Economic Community have spearheaded the conception of new borders that, for the first time since the fall of the sniper-patrolled Berlin Wall, have been guarded and defended not only via biopolitical means but incrementally via necropolitical devices, using techniques of exclusion and death.

European and North American societies have decided to construct themselves like entirely immunized communities, closed to the east and to the south, even though these two regions are its chief suppliers of fossil fuels and consumer goods. The construction of this political immunity exemplified the neo-sovereignist governmentality: Europe closed borders in Greece, Italy, and Spain in 2015 and built the largest outdoor detention centers in history around the Mediterranean. The destruction of Europe—for that is what we are witnessing—paradoxically began with that construction of an immune European community, open in its interior but completely closed to foreigners and migrants. The new frontier is your epidermis. The new Lampedusa is your skin.

What is now being tested on a global scale through the management of Covid-19 is a new way of understanding sovereignty. The body, your individual body, as a life space and as a network of power, as a center of production and of energy consumption, has become the new territory where the violent border politics that we have been designing and testing for years on “others” are now expressed, now taking the form of containment measures and of a war against the virus. The new necropolitical frontier has shifted from the coast of Greece toward the door of your home. Lesbos now starts at your doorstep. And the border is forever tightening around you, pushing you ever closer to your body. Calais blows up in your face. The new frontier is the mask. The air that you breathe has to be yours alone. The new frontier is your epidermis. The new Lampedusa is your skin. For years, we considered migrants and refugees infectious to the community and placed them in detention centers—political limbos where they remained without rights and without citizenship; perpetual waiting rooms. Now we are living in detention centers in our own homes.

Epidemics, through the declaration of a state of exception, are great laboratories of social innovation, the occasion for the large-scale reconfiguration of body procedures and technologies of power. Foucault analyzed the transition from leper management to plague management as the process through which the disciplinary techniques of the spatialization of power were deployed in modernity. While lepers had been treated with strictly necropolitical measures that excluded them—condemning them, if not to physical death, then at least to social death, to life outside the community—early-modern efforts to control the plague ushered in disciplinary management, with its strict segmentation of the city and confinement of each body in every home.

Strategies adopted by countries confronting Covid-19 exemplify two completely different types of biopolitical technology. The first, involving home confinement for the whole population and operating first in Wuhan, China, then in Italy, Spain, and France, and later in the UK and US, applies strict disciplinary measures that in many respects are not very different from the eighteenth-century approaches documented by Foucault. Strict spatial partitioning, the closing of towns and outlying districts, a prohibition against leaving the area. Everyone is ordered to stay indoors. If it is necessary to leave the house, it will be done by one person at a time, avoiding any meeting. The gaze is absolutely pervasive. Everyone locked up in their cage, everyone at their window. Only the town stewards, medical teams, and police officers will move about the streets and among the infected bodies, from one corpse to another, the “crows” or “terminators” who can be left to die: These are working-class, racialized people “who carry the sick, bury the dead, clean and do many vile and abject offices.” To reread the chapter on plague management in Europe in Discipline and Punish is to be struck by the fact that French border policies with regard to epidemics have not changed much in centuries. What is at work here is the logic of the architectural frontier, which emphasizes not only home quarantine but also the treatment of infection in isolated hospital wards. That technique has not proven entirely effective.

The second strategy, implemented in Singapore, South Korea, Taiwan, Hong Kong, and Japan, among other places, involves moving away from modern techniques of disciplinary and architectural control to pharmacopornographic techniques. The emphasis here is on the individual detection of the viral load through the multiplication of tests and constant digital surveillance of patients through their mobile devices. Cell phones and credit cards become surveillance tools that allow close tracking of individual bodies that may be carrying the virus. We do not need biometric bracelets. The cell phone has become the best bracelet: no one parts with it even when sleeping. GPS informs the police of the movement of any body that is suspect. The individual’s temperature and other vital signs are observed in real time by the digital instruments of a cyberauthoritarian eye. Here, society is a community of users, and sovereignty is above all digital dominion and the management of big data.

In April, Apple and Google signed an agreement to launch a new smartphone-tracking application for Covid-19. If the phone user tests positive, the app notifies public-health authorities; they would then alert anyone whose smartphone has come near the infected person’s phone during the previous fourteen days. But such techniques of political immunization are not new and were not only previously deployed for research and the capture of so-called terrorists. Since the early 2010s, for example, Taiwan has legalized access to all activity from sexual-encounter apps, with the ostensible goal of preventing the propagation of AIDS as well as prostitution over the internet. Covid-19 has legitimized and extended such governmental practices of biosurveillance and digital control by standardizing them and making them “necessary” to maintain a feeling of immunity and national health. Nevertheless, the governments that have implemented extreme digital-surveillance measures have not yet envisioned prohibiting the traffic and consumption of wild animals or the industrial production of birds and mammals—which is at the origin of viral zoonosis production, including SARS-COV-2—nor the reduction of CO2 emissions. What has grown is not the immunity of the social body but the tolerance of citizens under the cybernetic control of the state and corporations.

The political management of Covid-19 as a form of administration of life and death gives shape to a new subjectivity. What will have been invented after the crisis is a new utopia of the immunitary community and a new form of high-tech mass control of human bodies. The subjects of the neoliberal technical-patriarchal societies that Covid-19 is in the midst of creating do not have skin; they are untouchable; they do not have hands. They do not exchange physical goods, nor do they pay with money. They are digital consumers equipped with credit cards. They do not have lips or tongues. They do not speak directly; they leave a voice mail. They do not gather together and they do not collectivize. They are radically un-dividual. They do not have faces; they have masks. In order to exist, their organic bodies are hidden behind an indefinite series of semio-technical mediations, an array of cybernetic prostheses that work like digital masks: email addresses, Facebook, Instagram, Zoom, and Skype accounts. They are not physical agents but rather tele-producers; they are codes, pixels, bank accounts, doors without names, addresses to which Amazon can send its orders.

Covid-19 has also made visible a cartography of unproductive zones of the social body within the new pharmacopornographic system, which are emerging as obsolete in the new regime of technical-digital production. These are zones or population groups that had already been left on the other side of the biopolitical frontier but that today appear twice as vulnerable: the elderly, in particular those who are institutionalized within the death industries known as nursing homes, for whom it is too late to transform into technical-cybernetic subjects; people considered handicapped, in particular those institutionalized within the death industries known as homes for the disabled; criminalized and incarcerated people within the death industries known as prisons and detention centers, parallel universes totally outside the market bubble of the internet. Homeless bodies (outside of domestic disciplinarity as well as digital consumption and control) are considered criminal by the very fact of eluding confinement and are secluded in detention centers that promise more contagion than cure. That wage labor is itself an institution of confinement has never been clearer than now, as we witness “essential” workers as de-munized bodies brutally forced into spaces of lethal risk. The subways of New York are as crowded as ever because the transit authority has severely cut back on the number of trains. The essential workers forced to ride are disproportionately low-income, disproportionately migrants, disproportionately racialized bodies. Their forced mobility is also a type of incarceration. In relation to all of them, traditional confinement institutions, including hospitals, now appear not as enclaves where social and disciplinary order is maintained, but as fragile links in a mutating bio-necropolitical chain.

One of the fundamental biopolitical changes in pharmacopornographic techniques characterizing the Covid-19 crisis is that the domestic space, and not traditional institutions of social confinement and normalization (hospital, factory, prison, school, etc.), now appears as the new center of production, consumption, and political control. The home is no longer only the place where the body is confined, as was the case under plague management. The private residence has now become the center of the economy of tele-consumption and tele-production, but also the surveillance pod. The domestic space henceforth exists as a point in a zone of cybersurveillance, an identifiable place on a Google map, an image that is recognized by a drone.

When I studied the Playboy Mansion a few years ago—first the original gothic manor in Chicago, then the Los Angeles successor—I was interested in how it was already functioning, in the midst of the Cold War, as a laboratory in which new pharmacopornographic devices for controlling the body and sexuality were invented. Such devices began to spread through the West as early as the end of the twentieth century and with the Covid-19 crisis have extended to the entire population of the world. When I was conducting my research into the mansion, I was struck by the fact that Hugh Hefner, one of the richest men on earth, had spent nearly forty years lounging around at home, dressed in pajamas, a bathrobe, and slippers, drinking Pepsis and eating Butterfingers. Hefner directed and produced the largest-circulation men’s magazine in the United States without leaving the house, often without leaving his bed. Connected to a telephone, a radio, a stereo, and a video camera, Hefner’s bed was a genuine multimedia production platform.

His biographer Steven Watts characterized Hefner as a voluntary recluse in his own paradise. A fan of every means of archiving audiovisual material long before cell phones, Facebook, or WhatsApp, Hefner made more than twenty video- and audio cassettes a day, containing material ranging from interviews to instructions for his employees. Covered in wood paneling and thick curtains but penetrated by thousands of cables and filled with the era’s most advanced telecommunication technologies, the mansion was at once entirely opaque and completely transparent. Hefner had installed a closed-circuit camera in the residence, where there also lived some dozen Playmates, and he could access every room in real time from his control center. The material filmed by the surveillance cameras also ended up in the pages of the magazine.

Beyond the transformation of heterosexual pornography into mass culture, the silent biopolitical revolution launched by Playboy signified a challenge to the divisions that had been at the root of nineteenth-century industrial society: the separation of the spheres of production and reproduction, the difference between the factory and the home, and, along with that, the patriarchal distinction between masculinity and femininity. Playboy tackled that difference by proposing the creation of a new life enclave: the bachelor pad, connected to new technologies of communication. Its new semio-technical producer need never leave, either for work or to make love—and what’s more, those activities had become indiscernible. His round bed was at once his worktable, his manager’s desk, a photo-shoot set, and a place for sexual encounters; it was also a television studio where the famous program Playboy After Dark was filmed. Playboy anticipated discourses on telecommuting and immaterial production that the management of the Covid-19 crisis has transformed into a national duty. Hefner called this new social producer the “horizontal worker.” The vector of social innovation that Playboy set in motion promoted the erosion (and then the destruction) of distance between work and pleasure, production and sex. The life of the playboy, constantly filmed and diffused through magazines and television, was entirely public, even if the playboy never left his home or even his bed. Playboy’s challenge to the division between the masculine and feminine spheres lay in turning the new multimedia operator into an “indoors man,” which seemed like an oxymoron at the time. Watts reminds us that that productive isolation needed chemical support: Hefner was a consumer of the amphetamine Dexedrine. So, paradoxically, the man who never got out of bed did not get much sleep. The bed as a new multimedia operation center was a pharmacopornographic cell: It could only function with the use of the contraceptive pill, with drugs that sustained a high level of production and, eventually, with a broadband connection so as to maintain the constant flux of semiotic codes, which had become the playboy’s sole true sustenance.

The bed as a new multimedia operation center could only function with the use of the contraceptive pill, with drugs that maintained a high level of production and, eventually, with a broadband connection so as to maintain the constant flux of semiotic codes.

Does all this seem familiar to you now? Does all this oddly resemble your own confined life? Let us remember the slogans used by French and American leaders alike: We are at war. Do not leave your home. Telecommute. The biopolitical measures for contagion management imposed during the Covid-19 crisis have turned horizontal workers—more or less playboyesque, their labor cognitive or immaterial—into the most likely survivors of this pandemic. Each of our domestic spaces is today ten thousand times more technical than Hefner’s rotating bed was in 1968. Telecommuting and devices of telecontrol are henceforth at the tip of our fingers. Outside, subaltern vertical workers, racialized and feminized bodies, have been condemned.

In Discipline and Punish, Foucault analyzed monks’ cells as vectors of and models for the transition from the sovereign regime, with its bloody techniques of controlling the body and subjectivity, to the disciplinary architectures and devices of confinement that arose in the eighteenth century for the management of entire populations. Disciplinary architectures were secular versions of monastic cells, spaces in which the modern individual was made into a soul confined within a body—a literate soul able to read the orders of the state. When the writer Tom Wolfe visited Hefner, he wrote that the latter was living in a prison that was as soft as an artichoke heart. One might say that the Playboy Mansion and Hefner’s rotating bed, transformed into objects of pop consumption, functioned during the Cold War as spaces of transition where the new prosthetic, the ultraconnected subject, and also the new forms of pharmacopornographic production and consumption that would come to characterize contemporary society were invented. That mutation has become widespread and has amplified with the management of the Covid-19 crisis: Our portable telecommunication machines are our new jailers and our own domestic interiors have become the soft and ultraconnected prisons of the future.

All this could be bad news or a great opportunity. It is precisely because our bodies are the new enclaves of biopower and because our apartments are the new cells of biovigilance that it is more urgent than ever to invent new strategies of cognitive emancipation and resistance, to set in motion new forms of antagonism.

It is precisely because our bodies are the new enclaves of biopower and because our apartments are the new cells of biovigilance that it is more urgent than ever to invent new strategies of cognitive emancipation and resistance.

Contrary to what one might imagine, our health will not come from a border or separation, but only from a new understanding of community with all living creatures, a new sharing with other beings on the planet. We need a parliament not defined in terms of the politics of identity or nationality: a parliament of (vulnerable) bodies living on planet Earth. The Covid-19 event and its consequences summon us to once and for all go beyond the violence with which we have defined our social immunity. Healing and rehabilitation cannot be a simple negative gesture of social retreat, of the immunological closing of the community. Healing and care can only stem from a process of political transformation. Healing as a society would mean inventing a new community beyond the identity and border politics with which we have produced sovereignty until now, but also beyond the reduction of life to cybernetic biosurveillance. To stay alive, to maintain life as a planet, in the face of the virus, but also in the face of the effects of centuries of ecological and cultural destruction, means implementing new structural forms of global cooperation. Just as the virus mutates, if we want to resist submission, we must also mutate.

We must go from a forced mutation to a chosen mutation. We must operate a critical reappropriation of biopolitical techniques and their pharmacopornographic devices. First, it is imperative to modify the relationship between our bodies and biovigilant machines of biocontrol: They are not only communication devices. We must learn collectively to alter them. We must also learn to de-alienate ourselves. Governments are calling for confinement and telecommuting. We know they are calling for de-collectivization and telecontrol. Let us use the time and strength of confinement to study the tradition of struggle and resistance among racial and sexual minority cultures that have helped us survive until now. Let us turn off our cell phones, let us disconnect from the internet. Let us stage a big blackout against the satellites observing us, and let us consider the coming revolution together.

Paul B. Preciado is a philosopher, a curator, and a trans activist. An Apartment on Uranus: Chronicles of the Crossing, a collection of his columns between 2013 and 2018 for Libération and other media outlets, was published in 2019 by Semiotext(e).

Translated by Molly Stevens

https://www.artforum.com/print/202005/paul-b-preciado-82823