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À Démolir

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Demolire Statue


di Dominique Malaquais, Chimurenga Chronic, Sudafrica
Internazionale – 19 giugno 2020

Si chiama Mboua Massock. A Douala, in Camerun, ha fondato il Conseil supérieure de la rebellion morale (Consiglio superiore per la ribellione morale), un’organizzazione “che cerca mezzi pacifici per condurre delle battaglie”. Anche se il suo nome completo è Camille Mboua Massock ma Batalong, il nome che lo contraddistingue è un altro: Combattant (combattente). Anche se non ha mai occupato nessuna carica politica, Massock è un politico molto conosciuto nel paese. Per sottolineare la sua posizione, si autodefinisce Honorable deputé nationaliste non declaré elu (l’onorevole deputato nazionalista non dichiarato eletto). È stato più volte in carcere per aver partecipato a imprese giudicate inaccettabili dalle istituzioni. Tra queste, c’è una lotta che conduce dal 2001. Il suo bersaglio è un monumento.

Nel cuore di Douala c’è una statua che Mboua Massock contesta duramente. Eretta nel 1948, ritrae il maresciallo Philippe Leclerc de Hautecloque (1902-1947), un alto ufficiale dell’esercito francese sotto il governo di Charles de Gaulle. Interamente in bronzo, alta quasi due metri e poggiata su un piedistallo di cemento, la statua mostra il maresciallo in una posa rilassata, la mano destra su un bastone da passeggio e la mano sinistra sul fianco. Indossa una divisa militare semplice: camicia a maniche corte, pantaloni rimboccati in stivali da combattimento e un cappello con la visiera caratteristico dell’esercito francese. Dietro di lui c’è un ampio sfondo di cemento bianco dove sono rappresentati alcuni simboli bellici. In alto, tra riproduzioni in bassorilievo di carri armati, aeroplani, strutture architettoniche assortite e insegne militari, ci sono molti nomi di città e campi di battaglia (soprattutto in Africa, ma non solo) e date che vanno dal 1940 al 1946. Alla base del piedistallo c’è un cerchio di bronzo, ornato con diverse insegne militari tra cui la croix de Lorraine, il simbolo scelto dal generale de Gaulle.

Leclerc non occupa un posto piacevole nella storia del Camerun. Durante la seconda guerra mondiale, alla Francia mancavano soldati per combattere contro l’esercito tedesco. Per rinfoltire i ranghi,Parigi si rivolse alle sue colonie africane. Il 26 agosto 1940, Leclerc arrivò a Douala via mare. Da lì al 10 novembre, come riportano i libri di storia francesi, avrebbe “arruolato” il Camerun e il Ciad “nelle forze della Francia Libera”. Douala fu il primo porto toccato da Leclerc sul continente; poi fu la volta di altre città e colonie africane, i cui nomi appaiono sullo sfondo ricurvo che incornicia la sua statua. In Camerun, come in altri paesi dell’Africa, l’obiettivo non era semplicemente raccogliere soldati per sostenere l’esercito francese: si trattava di trovare carne da macello. Durante la seconda guerra mondiale decine di migliaia di africani morirono nel teatro di guerra europeo. Venivano spediti in missioni impossibili, erano male equipaggiati e trattati peggio dei soldati bianchi dei ranghi più bassi.

Strumenti più radicali


Era successo qualcosa di simile già durante la prima guerra mondiale, quando migliaia di sudditi coloniali furono costretti a combattere per la Francia, in Africa e inEuropa. Quando le ostilità cessarono, quelli che erano sopravvissuti furono rispediti a casa e dimenticati. Solo nel 2006, dopo anni di lavoro da parte degli attivisti e dopo l’uscita di Indigènes, un film che è stato visto da centinaia di migliaia di persone in tutta la Francia, c’è stato un minimo di riconoscimento: i veterani africani della prima guerra mondiale, ha deciso l’Eliseo, avrebbero da lì in avanti ricevuto la stessa pensione dei loro pari grado francesi. La decisione arrivava con un po’ di ritardo: la grande maggioranza di quei soldati era già morta di vecchiaia o di malattia.

La statua di Leclerc si trova al centro di Bonanjo, il distretto amministrativo ed economico di Douala. È rivolta verso place du Gouvernement, una grande piazza dove si trovano il principale tribunale e il maggiore ufficio postale del paese, una struttura straordinaria che nella seconda metà dell’ottocento aveva ospitato il re Rudolph Douala Manga Bell, due importanti banche, la sede di Air France e gli uffici della Pmuc, una compagnia di scommesse ippiche di proprietà francese del valore di diversi milioni di euro. Nella piazza, alcune panchine sono sistemate intorno a un monumento il cui piedistallo poggia su una fontana bassa. Più grande della statua di Leclerc, questo monumento, anch’esso in bronzo e inaugurato nel 1920, ritrae un soldato francese di profilo, che avanza a grandi falcate, trasportando uno zaino pesante, una baionetta sulla spalla sinistra e, stretta nella mano destra, una corona di alloro. Una targa spiega che il monumento è dedicato a tutti i soldati e i marinai ignoti, “francesi e alleati”, caduti “sul campo della gloria” durante la “battaglia per il Camerun”, nella prima guerra mondiale. I soldati “alleati” in questione erano stati coscritti con la forza, e il Camerun per il quale avevano combattuto non apparteneva a loro. Così la statua dedicata a un uomo che costrinse migliaia di camerunesi a combattere contro le truppe naziste nella seconda guerra mondiale si trova proprio di fronte al monumento che celebra la coscrizione forzata di migliaia di persone per un’altra battaglia tra francesi e tedeschi.

Entrambi i monumenti sono stati eretti dall’ex potenza coloniale. Invece non c’è nessun monumento e nessuna targa dedicati a un uomo o a una donna coinvolti nella lotta per la liberazione dal potere coloniale. A Douala c’è solo una strada a scorrimento veloce che porta il nome di boulevard de l’Indépendance.

Mboua Massock si oppone a questa situazione più che alla statua di Leclerc in sé. Una situazione a dir poco bizzarra. È difficile trovare un paese nell’Africa subsahariana dove non sia celebrata in qualche modo la fine del dominio coloniale. Secondo Massock, ci sono molti “martiri locali” che meriterebbero di essere ricordati. Come Rudolph Douala Manga Bell (1872-1914), impiccato dal governo tedesco insieme ad altre venti persone con l’accusa di tradimento. Tutto quello che resta agli abitanti di Douala in memoria di quest’uomo è la sua tomba, una struttura semplice situata dietro la sua casa di un tempo di cui si prende cura la famiglia Bell, e un pezzo di legno che dovrebbe essere la base dell’albero a cui fu impiccato. Ci sono anche combattenti non originari di Douala che meriterebbero un posto nella piazza della città. Come Ruben Um Nyobé, il vero padre dell’indipendenza, ucciso dalle truppe coloniali nel 1958.

Stanco di continuare a chiedere al governo una rappresentazione più giusta del passato del paese, nel 2001 Massock ha preso l’iniziativa. Armato di un peso da 10 chili, ha colpito il volto della statua di Leclerc. Pensava che la statua fosse di cemento dipinto. Se fosse stato così, il colpo avrebbe causato un danno enorme. Ma visto che è in bronzo, la statua si è appena scalfita. Solo il naso ha leggermente risentito del colpo, e oggi appare un po’ malconcio, come se fosse ammaccato. Dopo quel gesto Massock è stato messo in carcere per un breve periodo. Tuttavia, quando ha scagliato di nuovo la sua ira contro la statua, le cose non sono andate così bene.

Il 29 gennaio del 2006 Massock ha deciso di adottare strumenti più radicali per sfregiare il monumento di Leclerc. Sulla parete in cemento bianco dietro la statua, con della pittura rosso sangue e a caratteri cubitali, ha scritto: à démolir: nos martyrs d’abord (da demolire: prima i nostri martiri). Nel suo messaggio concedeva alle autorità municipali 180 giorni di tempo per completare la demolizione. La frase scelta, il periodo di tempo accordato e una grande croce rossa dipinta sullo sfondo erano espliciti riferimenti a una pratica comune in tutta la città: a Douala ci sono ovunque edifici e capanne marchiate con una spessa croce rossa e le parole “à démolir”, seguite da un numero di giorni e dalla firma delle autorità municipali. I residenti di questi edifici e negozi traslocano o decidono di restare, ma sono sempre a rischio di sfratto.Tutto questo genera un clima di incertezza, per cui solo gli abitanti più ricchi della città possono sperare di sistemarsi in modo permanente.

Massock è stato immediatamente arrestato e accusato di “sovversione”, un atto punibile con una condanna al carcere abbastanza pesante. La prima udienza del suo processo era stata issata per il 3 febbraio 2006, poi spostata al 3 marzo, per concedere alla difesa il tempo di prepararsi. Nel frattempo, le autorità francesi si erano occupate della rimozione delle scritte di Massock. Il 3 marzo 2006 l’udienza, presieduta da una sola persona, il giudice Nzali, è stata grottesca. Massock si è dichiarato colpevole. Ma invece di andare avanti con il processo, il pubblico ministero ha contestato il fatto che l’accusato fosse “vestito in modo indecente”.

Massock non indossava giacca e cravatta. Aveva scelto degli abiti associati alla regione dove è nato: una lunga gonna, una camicia ricamata e dei sandali. Portava una barba folta e, intorno al polso, una fascia verde, rossa e gialla, i colori della bandiera del Camerun. Nella mano destra teneva un bastoncino di legno, da molti interpretato come uno strumento “magico”. Momo Jean de Dieu, l’avvocato di Massock, ha risposto indignato al pubblico ministero: “Il mio cliente è vestito secondo la tradizione del suo popolo. Nella misura in cui questo è anche il processo della colonizzazione, dell’assimilazione e dell’alienazione”, la scelta di Massock era perfettamente ragionevole.

Per il giudice, il pubblico ministero e l’avvocato della difesa c’erano questioni di natura tecnica da affrontare. A chi apparteneva la statua? Alla Francia o al Camerun?Nel primo caso, ha argomentato Momo, avrebbe dovuto essere presente un’autorità francese; nel secondo caso, avrebbe dovuto essere presente un rappresentante del ministero responsabile dei monumenti nazionali. Per Massock, tuttavia, si trattava di questioni marginali. La preoccupazione principale del Combattant era e resta l’effetto diffuso e profondamente distruttivo dell’alienazione: è qui che vanno cercate le radici del suo atto di vandalismo.

Massock sa che il suo è stato solo un gesto. Ma voleva che fosse un gesto significativo (o, per dirla con le sue parole, “produttivo”). Un omaggio, per così dire, a Frantz Fanon, che meglio di chiunque altro ha descritto gli effetti dell’alienazione dei popoli colonizzati. Sulla stessa lunghezza d’onda– e ricordando, sottolineava Massock, gli scritti di Cheikh Anta Diop – andava interpretato il suo rifiuto di presentarsi in giacca e cravatta. Le stesse considerazioni valgono per un altro atto di rifiuto di Massock che ha causato una certa commozione in tribunale: durante il quarto giorno di processo ha spiegato al giudice che non sarebbe rimasto in piedi per tutta la durata del procedimento, come è richiesto agli accusati. Poi è andato a sedersi nella settima fila, di solito occupata dagli spettatori. Anche in questo caso si trattava di un gesto profondamente simbolico.

Statue come dinosauri


Con le sue azioni, Massock cerca di istruire le persone. Mezzo secolo dopo l’indipendenza del Camerun, vuole dimostrare che c’è ancora molto da fare per decolonizzare le menti. La sua è una battaglia necessaria. In Camerun, nei libri di scuola non si fa nessun cenno a Leclerc. La partecipazione dei soldati camerunesi alla lotta per gli interessi e i territori francesi durante le due guerre mondiali è presentata come un evento di cui andare fieri. Il fatto che agli studenti venga insegnato poco o niente sulla coscrizione forzata compiuta dal governo francese nei confronti dei loro antenati o sul ruolo giocato in questo contesto da uomini come Leclerc, ha avuto effetti disastrosi. Secondo Massock, poche delle persone che passano oggi per place du Gouvernement hanno una vaga idea di cosa rappresentino le due statue. Giovani coppie si fanno fotografare con una delle due statue sullo sfondo. Massock crede che quest’ignoranza non vada presa alla leggera, soprattutto considerando che quei monumenti sono stati voluti dai ministri dell’istruzione.

In ogni caso, l’incapacità di raccontare la storia delle persone che hanno combattuto per l’indipendenza, secondo Massock non sorprende più di tanto. Far conoscere le loro gesta ed erigere monumenti in loro onore non farebbe altro che sottolineare una cosa ovvia: quelli che hanno combattuto la battaglia in nome della libertà hanno perso e il loro posto è stato preso da altri che non possono rivendicare nulla di simile. Un effetto collaterale di questa situazione, potrebbe aggiungere Massock, è che non sono ricordati nemmeno quelli che si sono battuti contro il dominio tedesco – che fu relativamente breve, si è concluso con la prima guerra mondiale e non ha alcuna rilevanza per i leader arrivati al potere dopo l’indipendenza. Quindi né a Douala né a Yaoundé ci sono monumenti in onore di Rudolph Douala Manga Bell o di suo cugino Adolf Ngosso Din, entrambi uccisi l’8 agosto del 1914 per essersi rifiutati di cedere ai nuovi padroni della città la pianura di Joss, dove oggi sorge Bonanjo.

“Il Camerun”, scrive lo storico Achille Mbembe riflettendo sulla natura di monumenti come quelli appena descritti, “è un modello negativo del rapporto tra una comunità e i suoi morti, in particolare quelli che hanno compiuto azioni direttamente riconducibili alla volontà di cambiare il corso della storia”. Massock sarebbe sicuramente d’accordo. E, probabilmente, concorderebbe con la diagnosi di Mbembe sugli effetti di questa situazione sulla nazione: “Un paese che non tiene in nessuna considerazione i suoi morti non può generare una politica della vita. Non può fare altro che promuovere una vita mutilata – una vita che barcolla sull’orlo della morte”.

Forse Massock non sarebbe d’accordo con un’altra posizione dello storico. Secondo Mbembe, si dovrebbe fare a meno della nozione stessa di monumento: “Propongo che in ogni paese africano sia effettuato un attento inventario di tutte le statue e i monumenti coloniali. Dovrebbero essere raccolti in un unico parco, che dovrebbe diventare un museo per le generazioni future. Il parco museo panafricano sarà la tomba simbolica del colonialismo sul nostro continente. Dopo aver effettuato questa sepoltura, dovremo promettere di non erigere mai più statue a nessuno. Costruiamo piuttosto biblioteche, teatri, centri culturali, tutte cose che, da qui in avanti, nutriranno la crescita creativa del domani”.

Non so cosa ne pensi Mboua Massock. Per quanto mi riguarda, non c’è dubbio che le statue dovrebbero fare la stessa fine dei dinosauri, in Africa come altrove.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Biografia di Mboua Massock

◆ 1955 Nasce in Camerun.
◆ 2001 Armato di un peso da dieci chili, cerca di sfregiare la statua del maresciallo francese Leclerc de Hautecloque, in una piazza di Douala. Viene arrestato e rilasciato poco dopo.
◆ 29 gennaio 2006 Imbratta il muro dietro la statua di Leclerc con una scritta anticolonialista. È subito arrestato.
◆ 3 marzo 2006 Comincia il processo: Massock è accusato di sovversione.
◆ 2009 Viene arrestato insieme alla figlia durante una protesta contro il governo.

[ENG]

Monumental Failures

by Dominique Malaquais, Chimurenga Chronic, South Africa
Chimurenga Chronic – June 19, 2020

His name is Mboua Massock. He is the founder, in Douala, of an organisation called Conseil supérieur de la rebellion morale (Superior Council for Moral Rebellion), ‘dedicated to peaceful means of waging battle’. Though his full name is Camille Mboua Massock ma Batalong, he answers to one name only: Combattant. A political figure known to most, he has never held elected office. To underscore the point, he identifies himself as l’Honorable deputé nationaliste non declaré élu (The Honourable Nationalist Deputy yet and never to be declared elected). He has served many prison terms for his participation in endeavours deemed unacceptable by the state. Among these is a fight he has been waging since 2001. Its focus is a monument.

In the heart of Douala stands a statue to which Mboua Massock powerfully objects. Erected in 1948, it depicts Marshal Philippe Leclerc de Hautecloque (1902-1947), a high-ranking member of the military in General Charles de Gaulle’s government. Cast in bronze, some 1,8m tall and positioned on a cement pedestal, it shows the marshal in a relaxed pose, right hand resting on a walking stick and left hand on hip. He wears everyday army gear – a short-sleeved shirt, pants tucked into combat boots and a visor cap characteristic of the French military. Behind him is a large, curved panorama of white cement. On this, among low-relief renditions of tanks, airplanes, assorted architectural structures and military insignia, are the names of multiple cities and battlefields (primarily, though not exclusively, African) and dates ranging from 1940 to 1946. At the base of the pedestal is a circle cast in bronze, adorned with various military insignia including the croix de Lorraine, General de Gaulle’s symbol of choice.

Leclerc’s place in Cameroonian history is not a pretty one. During the Second World War, France was lacking in soldiers to combat the German army. To fill its ranks, it turned to its African colonies. On August 26 1940, Leclerc arrived in Douala by sea. By November 10 he had, as French history books put it, ‘rallied’ Cameroon and Chad ‘to the forces of Free France’ (that part of France and its colonies which was not under the rule of pro-Nazi Marshal Pétain and was governed from London by de Gaulle). Douala was Leclerc’s first port of call on the continent; then came other African cities and colonies, whose names appear on the curved background that frames his statue. In Cameroon as elsewhere in Africa, the goal was not simply to gather up soldiers so as to shore up the French army; it was to collect cannon fodder. Sent out, as they were, on impossible missions, under-equipped and given treatment worse than the lowest-ranking white soldiers, thousands upon thousands of Africans died in the European theatre during the Second World War.

A similar state of affairs prevailed during the First World War. As would happen some 30 years later, thousands of colonial subjects were forced to fight for France, both in Africa and in Europe. When hostilities came to an end, those who had survived were shipped home and forgotten. In 2006 only, following years of work by activists and the release of Indigènes, a blockbuster film seen by hundreds of thousands of viewers across France, did some manner of recognition come: African veterans of the First World War, the Elysée announced, would henceforth receive the same pension as their French counterparts. The announcement came a little late: the overwhelming majority of survivors had since died of old age or illness.

This brief detour into the vagaries of First World War helps situate the monument in Leclerc’s honour. His statue is located at the very centre of Bonanjo, Douala’s administrative and business district. It looks out onto the Place du Gouvernement, a vast plaza framed by the city’s main courthouse and post office, a stunning structure that was home, in the second half of the 1800s, to King Rudolph Douala Manga Bell (of whom more later), two major banks, Air France’s headquarters, and the offices of PMUC, a multi-million Euro, French-owned, horse-betting outfit. At the centre of the Place is a large circular walk, pleasantly enhanced with flowers at election time. Benches are arrayed around a centrally located monument, whose pedestal rests in a low-lying fountain. Larger than the Leclerc statue, this monument, also in bronze and inaugurated in 1920, depicts a French soldier seen in profile, striding forward, bearing a heavy backpack, a bayonet slung over his left shoulder and, clasped in his right hand, a crown of golden laurels. A plaque indicates that the monument is dedicated to all the unknown soldiers and seamen ‘French and allied’ who fell ‘on the field of glory’ during the ‘battle for Cameroon’ in the First World War. The ‘allied’ soldiers in question had, of course, been conscripted by force and the Cameroon for which they fought was not theirs. Naturally, no mention is made of this.

Thus, Leclerc’s statue, which celebrates a man who forced thousands of Cameroonians to fight against Nazi troops during the Second World War, directly faces a monument hailing the conscription against their will of thousands in yet another battle between France and Germany. Both monuments were erected by the (ex)-coloniser. Every year, a ceremony is held around them, organised by the French Consulate, at which veterans appear and French flags are hoisted in commemoration of battles past. No monument, stele, statue or plaque on this, the most visible and largest plaza of central Douala, celebrates any man or woman involved in the quest for freedom from colonial rule. Indeed, no such thing exists anywhere in the city. All that one encounters is a thoroughfare named Boulevard de l’Indépendance.

It is to this, rather than to Leclerc specifically, that Mboua Massock objects. The situation is, to say the least, odd. One would be hard-put to find a country in sub-Saharan Africa whose largest city bears no memorial whatsoever to the end of colonial rule. Far poorer cities have made a point of erecting monuments celebrating the end of colonialism – Lomé, to cite but one example. Others have integrated colonial statuary with new monuments and steles celebrating independence – Bamako, for instance, and cities throughout South Africa. Elsewhere, monuments hailing the participation of African soldiers in French wars have been done away with altogether. Such was the case in Algiers, when, in 1984, the Monument aux morts de la seconde guerre mondiale (Monument to soldiers who died in Second World War), erected by the French and dedicated to Algeria’s soldats indigènes (cannon fodder again), was destroyed and replaced with the Maquam E’chahid, (Martyrs’ Monument), which commemorates Algeria’s blood-soaked battle for independence.

As Massock sees it, there are many others – ‘local martyrs’, he calls them – whose effigies should appear in Douala generally, and on the Place du Gouvernement in particular. A case in point is Rudolph Douala Manga Bell (1872-1914), whom the German government hung, along with some 20 others, on charges of treason. All that remains to remind the people of Douala – of this man – is his tomb, a simple affair located behind his home of yore and maintained by the Bell family, and a stump said to be the base of the tree from which he was hung. Many others could have been celebrated as well, members of the Duala community, who fought for freedom from the Germans first and then the French. Non-Duala fighters certainly deserve their place in the city’s squares as well – among them Ruben Um Nyobé, the true father of independence, who was murdered by colonial troops in 1958.

Tired of demanding that action be taken to ensure a more equitable representation of the country’s past, in 2001 Massock took matters into his own hands. Armed with a 10kg weight, he smashed Leclerc’s effigy in the face. He had been under the impression that the figure was made of painted cement. Had it been, the whack Leclerc received would have done considerable damage. As the statue is made of bronze, however, it barely budged. Only the nose suffered, so that now it appears slightly off-kilter – out of joint, as it were. Massock was briefly detained, then released. The next time he took his ire out on the statue, however, things did not go so well.

On July 29, 2006, Massock decided on more radical means to deface Leclerc’s monument. With blood red paint, on the curved background that frames the statue, he wrote in giant letters: A DEMOLIR: NOS MARTYRS D’ABORD (Must be destroyed: our martyrs first). He gave the Communauté Urbaine de Douala (CUD) – the municipal authorities – 180 days to accomplish the demolition. The phrasing he chose, the delay he accorded and a large red cross he painted on the backdrop were explicit references to a practice encountered citywide: all over Douala are buildings and lean-tos marked with a thick red cross and the words, A démolir, (to be demolished) followed by a number of days and signed CUD. Inhabitants of these buildings and shops move or decide to stay on, but are always at the mercy of the municipality, constantly at risk of incipient displacement, all of which results in a highly unstable environment in which all but the wealthiest city dwellers can hope to settle permanently.

Massock was promptly arrested and charged with ‘subversion’, an act punishable by a significant prison sentence. The first hearing of his trial was set for February 3, 2006, then moved to March 3, to allow the defence time to prepare its case. In the meantime, French authorities saw to the removal of Massock’s offensive graffiti. The March 3 audience, presided over by one Judge Nzali, proved Ubuesque. Massock pleaded guilty and matters were set to move forward. The prosecutor, however, complained that the defendant was ‘indecently dressed’. Massock was not wearing a coat and tie; instead, he had chosen clothing associated with the Bassa region, whence he hails: a long skirt, embroidered shirt and sandals. He sported a thick beard (not a common sight among ‘proper’ Doualais) and, wrapped around his waist, a sash of green, red and yellow, the colours of the Cameroonian flag. In his right hand, he held a wooden baguette that was interpreted by many as a ‘magical’ device. The defence, represented by attorney Momo Jean de Dieu, bristled at the prosecutor’s comment. ‘Decent does not mean Western,’ Momo responded. ‘My client is dressed in the tradition of his people. Insofar as this is also the trial of colonisation, acculturation and alienation,’ he went on, Massock’s sartorial choice was a perfectly reasonable one.

For the judge, the prosecutor and the defence attorney, there were questions of a technical nature to address. Whom, in fact, did the statue belong to: France or Cameroon? If the former, Momo argued, some manner of French authority should be present; if the latter, a representative of the ministries responsible for national monuments should be in attendance. For Massock, however, these were peripheral issues. As Momo’s words suggested, Le Combattant’s principal concern was and remains the widespread and profoundly damaging effects of alienation: in this lay the roots of his vandalism.

Ultimately, Massock knows that his gesture was just that – a gesture. It was meant, however, as a meaningful (or as he put it a ‘productive’) one – a response, as it were, to Frantz Fanon, who, better than anyone, has described the effects of alienation. It was in a similar vein – and in echo, Massock underlined, to the writings of Cheikh Anta Diop – that one must understand his refusal to appear in coat and tie. (What Fanon and the Cheikh would have thought of this pairing of their views is another question).

The same holds true of another act of refusal on Massock’s part that caused considerable commotion in court: on the fourth day of his trial, he announced to the judge that he would not stand throughout the proceedings, as defendants are expected to do, and promptly sat down in the seventh row of seats, typically occupied by spectators. Here again, the gesture was largely symbolic, but it did make a point that clearly struck a chord in the city, as it was widely reported in the local press.

Through his actions, symbolic though they have been, Massock seeks to educate. A half-century after Cameroon’s accession to independence, he means to show how much remains to be done in his country to decolonise the mind. The education he seeks to dispense through his acts is urgently needed. In history books read by schoolchildren across Cameroon, there is none but the most glancing reference to Leclerc. The participation by Cameroonian soldiers in the fight for French interests and land during the two world wars is presented as a subject of pride. The fact that schoolchildren are taught little or nothing about France’s conscription of their forefathers, the violence done to those conscripts or the role played in this context by men like Leclerc has had stunning effects. Today, few passers-by on the Place du Gouvernement, Massock notes, have any idea who or what the two statues represent. Young couples come to be photographed there, with one or the other monument in the background. One cannot possibly make light of this ignorance, he holds, especially when one takes into consideration the identity of the ministries responsible for national monuments in Cameroon: the Ministries of Basic and Secondary Education.

The dual failure to teach about and to celebrate those who fought to end the colony should come as little surprise, Massock points out. Fostering knowledge about them and erecting monuments in their honour would only underscore the obvious: that those who waged battle in the name of freedom lost and that their place was taken by others, who can make no such claims. An extraordinary side-effect of this state of affairs, he might add, is the fact that even those who battled German rule – for a relatively short period, which ended with the First World War and has no bearing on the leaders who came to power after independence – are not commemorated. Thus, neither in Douala nor in Yaounde are there monuments commemorating Rudolph Douala Manga Bell or his cousin Adolf Ngosso Din, both of whom were executed on August 8, 1914 for refusing to give over to the city’s new rulers the Joss Plateau, where Bonanjo is located today – a clear breach by the Germans of a treaty signed in 1884 between the Reich, in the person of Gustav Nachtigal, and Kings Akwa and Bell.

In addition to refusing dispossession, Bell was held guilty of seeking to federate men of power across Cameroon against apartheid-like urbanisation plans designed for Douala by the Germans. Among these men were Martin Paul Samba (executed on the same day in the town of Ebolowa) and Henri Mabolla of Kribi, the rulers of two Northern sultanates (Kalfu and Mindif) and several others linked to them, all of whom were condemned to death. Of these independence fighters, there is nary a sign, not a single act of recognition on the part of the government. Instead, what one does come upon in Douala are monuments to such men as Gustav Nachtigal and Otto von Bismark and, in Yaounde, to the likes of Charles Atangana, who played an active role in supporting the German colonial occupation.

‘Cameroon,’ writes the historian, Achille Mbembe, reflecting on the nature of monuments such as those described above, ‘represents … the very anti-model of how a community might relate to its dead and, in particular, to those whose death is the direct consequence of acts meant to change the course of history.’

With this, Massock would no doubt agree. So too, one suspects, he would second Mbembe’s diagnosis as to the effects that such a state of affairs has on the nation: ‘A country that doesn’t give a damn about its dead cannot give rise to a politics of life. It can but promote mutilated life – life teetering ever on the edges of death.’

Where he might stand on another matter is a different question. For Mbembe, the very notion of monuments should be done away with:

I propose that in every African country we establish a careful inventory of all colonial statues and monuments. These we shall collect in a single park, which will serve as a museum for generations to come. This Panafrican park-cum-museum will serve as colonialism’s symbolic grave on our continent. Once we have effected this burial, let us … promise never again to erect statues to anyone at all. Instead, let us build everywhere libraries, theatres, cultural centres – all things that, from this day forward, will nourish tomorrow’s creative growth.

Whether Mboua Massock would see eye to eye here with Mbembe is unclear. As for me, there is no doubt but that statues should go the way of the dinosaurs, in Africa and everywhere else.